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KILL BILL: VOLUME 2
(KILL BILL: VOL.2)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 maggio 2004
 
di Quentin Tarantino, con Uma Thurman, David Carradine, Daryl Hannah, Michael Madsen, Chia Hui Liu, Michael Parks (Stati Uniti, 2004)
 
Prima di abbandonarsi al piacere puro, al godimento del cinema allo stato brado che procura KILL BILL 2 bisogna fare un piccolo sforzo: immaginarselo com'era stato concepito, incollato al Volume 1, un'opera unica, conseguente e compiuta.

Non interesserà allora tanto scoprire gli ultimi sviluppi della ormai mitica vendetta della Sposa; non solo perché la faccenda non è proprio dissimile da quella di tutti i western, ma perché è il "come", secondo le buone tradizioni, a contare. Nel come un film possa mutare clamorosamente di pelle. Non più quella, certo eccitante, delle sfrontate coreografie cinetiche ispirate alle arti marziali cinesi, ai cartoon giapponesi, all'insolenza alla Zorro o Bruce Lee in salsa rumba gitana. Ma dei tempi sorprendentemente stirati, dove ritroviamo i leggendari (altrettanto prolissi, meno divertenti che in LE IENE o PULP FICTION) dialoghi non sensistici, il pathos epico, gli accenti morriconiani, la gestualità, gli spazi di un Sergio Leone. E, addirittura, una attenzione all'intimità dei rapporti (certo, particolari…) fra i personaggi: scavati nelle interpretazioni degli attori, prima fra tutte quella di una Uma Thurman alla quale il regista dedica tutto il sadismo di una relazione amorosa del tutto particolare.

Apparentemente meno spettacolare del primo episodio (ma con sequenze già da delirio cult, come quella della terrificante sepoltura live, ripresa in soggettiva) questo KILL BILL 2 rappresenta in effetti l'ennesimo colpo di coda del genio di Tarantino: iscrivere le schegge impazzite di una incontenibile libertà espressiva all'interno di una proiezione assolutamente sotto controllo. Che progressivamente riesce a domare, in quella parabola dal ludico al romantico verso l'intimità dei personaggi, l'esuberanza straordinaria della felicità inventiva. Siamo sempre, ovviamente, nell'iperrealismo dei suoi riferimenti alla cultura pop, negli eccessi ironici di un gore che gli permette eccessi indicibili sulla carta. Ma come permeati da una sorta di affettuoso sentimentalismo, che gli fa parlare addirittura di maternità; dalla voglia di dire finalmente cose serie, di riprendere la ragnatela di tutte quelle inverosimili tracce per approfondire, con un fervore quasi letterario, un discorso iniziato fra i lazzi scostumati che sappiamo.

Tutto ciò sarà pure contraddittorio e, a seconda degli umori, confortante o deludente: ma del tutto - ed è quel che conta, non lo diceva già Baudelaire? - sorprendente. Tarantiniano, l'aggettivo è già stato coniato da tempo.


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